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28/06/2023

Gesmundo (Cgil): “Fse e Pnrr per rilanciare Puglia e Meridione. Lavoro sicuro per ridurre infortuni”

(Pino Gesmundo, segretario confederale Cgil)

Il neo segretario confederale della Cgil parla a CUORECONOMICO della sua Puglia, ma anche di tutto il Sud: “Mismatch fra competenze e richieste professionali, ma al contrario. Bene le opportunità per lo sviluppo di un hub energetico, ma la regione deve sfruttare la transizione e non continuare a subirla”

L’assemblea generale della Cgil nazionale riunitasi Roma, su proposta del segretario Maurizio Landini, ha eletto il pugliese Pino Gesmundo segretario confederale nazionale. Una grande vittoria per il gruppo dirigente pugliese e per le proposte politiche regionali, apprezzate anche dal gruppo dirigente nazionale.

In occasione del nuovo incarico, Gesmundo ha ricordato che la Puglia è la terra di Giuseppe Di Vittorio, “ma anche di tanti dirigenti, funzionari, militanti, che senza assurgere a notorietà, con il proprio lavoro spesso volontario, penso ai tanti anziani delle Leghe, hanno fatto e continuano a fare ogni giorno di questa nostra Cgil il più grande sindacato italiano”.

Tra le priorità politiche che il neo segretario confederale Gesmundo ha sempre rilanciato in Puglia vi è quella dell’occupazione, dei giovani e delle donne. “Il problema vero da affrontare è cambiare le politiche economiche e di sviluppo per creare un lavoro sano, capace di assorbire le professionalità che abbiamo.

Al Sud e in Puglia i lavoratori sono sovraistruiti, il tessuto produttivo chiede lavoratori di bassa qualifica”, ha ribadito il neo segretario.

Nel tentativo di comprendere la realtà occupazionale nazionale, le problematiche del lavoro in Puglia e il ruolo dei fondi del Pnrr per lo sviluppo sostenibile, intervistiamo il neo segretario confederale nazionale della Cgil, Pino Gesmundo.

Da tempo denunciate la mancanza di vere politiche industriali nazionali. Gli investimenti avvengono grazie al capitale dei privati, che non scelgono cosa fare in base alle vocazioni territoriali. Cosa chiedere alle istituzioni politiche in rapporto alle nuove modalità del lavoro e della globalizzazione?

Questo Paese da anni non ha un disegno omogeneo e organico di politica industriale. La politica ha scelto per quasi un trentennio di procedere a sostenere le imprese con incentivi spesso a pioggia, senza nemmeno valutare qualità degli interventi, ricadute occupazionali e sostenibilità sociale e ambientale degli stessi.

In Puglia la misura di incentivazione alle imprese attraverso le risorse dei fondi comunitari ai tavoli del partenariato sociale siamo riuscita a legarla all’aumento occupazionale che gli investimenti devono determinare. Un indirizzo preciso che arriva dall’Europa.

Politiche industriali sarebbero state utili per anticipare alcune delle crisi che oggi mettono a rischio migliaia di posti di lavoro e di indebolire il sistema produttivo del Paese.

La transizione ecologica e quella energetica le indichiamo da tempo come opportunità e occasione di riconversione oltre che di costruzione di più moderni processi produttivi.

Invece le abbiamo subite, siamo arrivati in ritardo, dobbiamo superare la fonte fossile e nel frattempo abbiamo tutto il settore dell’automotive in sofferenza, c’è la questione Ilva che si traduce in presenza dell’Italia nel fondamentale asset della produzione di acciaio.

Politiche industriali per accompagnare i processi di innovazione di produzione e di prodotto della piccola e media impresa italiana, spina dorsale del manifatturiero, che deve fare i conti con la competizione dei paesi emergenti e su scala globale non può pensare di competere solo sul costo del lavoro, deve avere capacità di connettersi alle catene di valore.

Abbiamo sollecitato anche con il nuovo Governo l’apertura di un tavolo interministeriale, perché vi siano strategie di lungo periodo e un tavolo negoziale con sindacati e imprese, partendo dal presupposto che quel che dobbiamo costruire è un nuovo modello di sviluppo che deve avere al centro, per quel che ci riguarda, il lavoro di qualità, la buona occupazione.

Qualità, competenze, investimenti in formazione, questo ci deve posizionare nel mercato globale, non la contrazione di diritto o l’elusione dei contratti”.

La Puglia punta a divenire un hub energetico: pensiamo al Tap, alle nuove logiche dello sviluppo energetico sostenibile, al solare o al grande dibattito sull’eolico al largo di Otranto. Ciò che chiedete è una “pianificazione accurata”. Possiamo approfondire?

Lo dicevo prima citando l’Ilva e questo vale anche per la centrale di Cerano: ovvio che dobbiamo andare verso la decarbonizzazione, il prezzo pagato in termini ambientali e di salute è stato pesantissimo però la transizione non può determinare altre ricadute sociali, per intenderci a discapito della forza lavoro.

Per questo diciamo che sono processi che vanno governati, dove forte deve essere il protagonismo della politica, dei Governi nazionali e regionali.

Bene il protagonismo della Puglia rispetto alla prospettiva di sviluppo dell’idrogeno, ma non possiamo far scegliere ai player privati come, dove, quando, a che prezzo.

Così come per l’eolico e il fotovoltaico: siamo già tra le regioni leader in Italia per la produzione di energia da fonti rinnovabili, vero anche per altre realtà territoriali del Mezzogiorno.

Ma quanta produzione di componentistica della filiera delle rinnovabili c’è in Puglia e al Sud? Si costruiscono pannelli fotovoltaici, piloni e pale eoliche? Siamo a percentuali bassissime a fronte del contributo invece offerto in termini energetici. Anche questa risorsa deve attrarre investimenti che creino occupazione e facciano crescere territori. Questo è per noi pianificazione”.

Se non ci si muove, con le risorse del Pnrr da investire, il Mezzogiorno e la Puglia saranno tagliati fuori dal Paese. Dove puntare con tali importantissimi fondi pensando anche allo sviluppo sostenibile?

Le risorse del Pnrr scontano un limite che come Cgil abbiamo denunciato sin dall’inizio e si ricollega a quanto già detto.

Nella costruzione degli interventi si è privilegiata la forma dei bandi, che ha ovviamente premiato i grandi players privati e quei territori, in caso di progetti rivolti alle amministrazioni, dove gli enti locali sono meglio strutturati, con maggiori risorse e più dinamici.

Questo stride con l’indirizzo dato dall’Unione europea circa l’utilizzo dei fondi del Next Generation EU per colmare divari territoriali e sociali che vedono le regioni del Mezzogiorno più penalizzate. Serviva e serve la regia pubblica, perché le decisioni sugli indirizzi e le opzioni di sviluppo e anche di coesione non possiamo delegarli ai privati.

Le risorse che ci sono evidentemente vanno spese bene e nei tempi previsti, non possiamo in alcun modo permetterci di perdere questa occasione.

Non capiamo la melina del Governo ad esempio nell’assegnazione alle regioni del Fondo Sociale Europeo e le attese sui trasferimenti delle risorse del Pnrr agli enti locali che hanno progetti e investimenti in essere.

C’è una voglia di centralizzazione del controllo delle risorse quando servirebbe invece visione e strategia d’insieme. Ad esempio sostenendo – ci sono specifiche voci di finanziamento – le riconversioni produttive di quelle imprese energivore o non sostenibili dal punto di vista ambientale, e di riconversione professionale con piani di formazione per la forza lavoro.

Se parliamo di sviluppo e transizione su questo deve spingere un Governo, su un livello di contrattazione con i privati, le parti sociali, le istituzioni periferiche, per condividere decisioni che attengono al futuro del nostro Paese e dei nostri territori del Mezzogiorno”.

Secondo i dati Inail, la Puglia è la terza regione in Italia per morti sul lavoro. Cosa fare per fermare questa bruttissima pagina di storia regionale del lavoro?

Quei dati parlano di un sistema di imprese fortemente terziarizzato, della prevalenza di agricoltura, costruzioni, turismo, tutti settori dove stagionalità e precariato la fanno da padrone. E un lavoratore precario, sul ricatto del reddito, è spesso costretto a non poter esigere il rispetto non solo dei contratti ma delle stesse norme di prevenzione e sicurezza.

Quando non si è in presenza di vero e proprio lavoro nero o grigio. Ma questo vale al Sud come al Nord e non tiene fuori, anzi, il manifatturiero. Serve allora un radicale cambiamento culturale del fare impresa, dove quelli sulla prevenzione e sicurezza siano visti come investimenti e non come costi.

Serve fare formazione, noi della Cgil siamo impegnati in percorsi di questo tipo con delegate e delegati, assieme all’Inail, con progetti condivisi.

Ma serve anche irrobustire il sistema delle ispezioni, potenziando gli organici e colpendo duramente quelle imprese che non sono in regola. Non possiamo dare per fisiologico un dato di oltre mille morti l’anno, senza contare l’altissimo numero di infortuni che spesso causano menomazioni e danni psicologici.

Serve, lo ribadiamo, anche superare la giungla contrattuale che condanna al precariato. Un lavoratore garantito ha strumenti di denuncia senza rischiare di perdere la sua fonte di reddito. Serve fare tutte queste cose assieme, lo diciamo a chi governa, altrimenti ipocritamente ci sarà chi continuerà a piangere i morti sul lavoro”.

Di Domenico Letizia
(Riproduzione riservata)

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