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28/01/2023

Il lavoro perde i pezzi: oltre 1,6 milioni di dimissioni volontarie nei primi 9 mesi del 2022

Il dato è dell'osservatorio del Ministero del Lavoro. Risalgono anche i licenziamenti. Scacchetti (Cgil): "Lavoratori scarsamente valorizzati". Romani (Cisl): "Pandemia ha lasciato un nuovo modello di lavoro"

Ben 1,66 milioni di dimissioni volontarie dal lavoro nei primi mesi del 2022, in aumento del 22% rispetto allo stesso periodo del 2021 quando erano state 1,36 milioni. È il dato che emerge dalle tabelle dell'ultima nota trimestrale sulle comunicazioni obbligatorie del Ministero del Lavoro.

Tra le cause di cessazione dei rapporti di lavoro, le dimissioni costituiscono, dopo i contratti a termine, la quota più alta. Risalgono anche i licenziamenti: tra gennaio e settembre 2022 sono stati circa 557.000 contro i 379.000 nei nove mesi del 2021, con un aumento del 47% rispetto ad un periodo in cui era però in vigore il blocco. 

Nel solo terzo trimestre dell'anno scorso, le dimissioni sono state pari a 562.000, in crescita del 6,6% (pari a +35000) sul terzo trimestre 2021.

Continua, dunque, sottolineano i dati sulle comunicazioni obbligatorie, il trend positivo osservato per le dimissioni a partire dal secondo trimestre 2021, seppure con una variazione inferiore rispetto ai trimestri precedenti.

Per quanto riguarda i licenziamenti, in risalita dopo lo stop deciso con la pandemia, nel terzo trimestre 2022 ne sono stati registrati quasi 181.000, con una crescita del 10,6% (pari a +17 mila) in confronto al terzo trimestre del 2021

Le posizioni di Cgil e Cisl

Secondo la segretaria confederale della Cgil, Tania Scacchetti, "i dati testimoniano la ripresa di una certa vitalità e mobilità nel mercato del lavoro, anche in ragione del superamento delle restrizioni da Covid.

Naturalmente preoccupa la ripresa dei licenziamenti, che può essere legata al dato di maggiore incertezza economica e alla crisi di alcuni settori".

Per quanto riguarda l’aumento delle dimissioni, prosegue Scacchetti, “può avere spiegazioni molto differenti: da un lato può positivamente essere legata alla volontà, dopo la pandemia, di scommettere su un posto di lavoro più soddisfacente o più 'agile', dall'altro però, soprattutto per chi non ha già un altro lavoro verso il quale transitare, potrebbe essere legato a una crescita del malessere delle lavoratrici e dei lavoratori dovuta anche ad uno scarso coinvolgimento e ad una scarsa valorizzazione professionale da parte delle imprese".

Il segretario confederale della Cisl, Giulio Romani, commenta invece che "il fenomeno delle dimissioni volontarie che, apparentemente in contraddizione con l'alto tasso di disoccupazione, continua a crescere nel nostro Paese, ci interroga profondamente sul cambiamento del mercato del lavoro indotto anche dal 'periodo di riflessione' consentito dal lockdown durante la pandemia".

"La recente indagine Inapp sulla qualità del lavoro”, prosegue Romani, “ci offre però una chiave di lettura del fenomeno assolutamente coerente con la situazione italiana.

Le imprese in cui si sviluppa benessere lavorativo e qualità del lavoro risulterebbero essere una minoranza, non casualmente le stesse in cui la produttività risulta particolarmente elevata, la più alta d’Europa”.

"In un Paese - prosegue Romani - in cui il 45% dell'occupazione è offerta da questa tipologia di imprese non c'è dunque da meravigliarsi se in tanti lavoratori, soprattutto tra i più giovani, maturi la voglia di fare scelte lavorative e di vita diverse.

In particolare molti non sono disposti a rinunciare alla maggiore autonomia lavorativa e ai nuovi modelli di vita e di convivenza sperimentate con lo smart working”.

Redazione Cureeconomico
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